L’acchianata ru Piddirinu, di Riccardo Quadrio (parte I)
“Palermo, lunedì 2 aprile 1787. Alle tre del pomeriggio, con sforzo e fatica, entrammo finalmente nel porto, dove ci si presentò il più ridente dei panorami. Mi sentivo del tutto rimesso, e il mio godimento fu grande.
La città situata ai piedi di alte montagne, guarda verso nord; su di essa, conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino con la sua elegante linea in piena luce…”
(Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, 1786-1788).
“Il più bel promontorio del mondo”, così come fu definito il Monte Pellegrino dallo stesso Goethe, appare quale semplice promontorio solo a chi lo osserva da Palermo: in realtà, è un vero e proprio massiccio montuoso, con un’orografia molto varia e che si sviluppa – come può rilevarsi dalle ortofoto aeree – in direzione longitudinale, con i lati maggiori che guardano l’uno verso il mar Tirreno, l’altro verso la piana dove si estende la città; il fianco del monte che guarda a sud-est è quello celeberrimo che il Goethe descrive, e che chiunque si trova ad ammirare avvicinandosi a Palermo provenendo da oriente.
Monte Pellegrino è per i palermitani la “montagna sacra” per antonomasia: già in era preistorica le autoctone popolazioni sicane vi trovavano protezione, rifugiandosi nelle sue grotte e nei suoi anfratti, così come testimoniano le numerose incisioni rupestri che ne ornano le pareti, risalenti al periodo Paleolitico e al Mesolitico; tracce più recenti, risalenti al IV secolo a.C., danno prova che il Monte fosse sede di un culto che i Punici dedicavano a Tanit, dea della fertilità; le prime testimonianze di culto cristiano risalgono al VII secolo.
Conosciuto dai Greci come Heirktè (Εìρκτή), e dagli Arabi chiamato Gebel Grin (“monte vicino”), pare che l’attuale nome del Monte sia riconducibile al latino “Peregrinus”, ovvero “straniero” ma anche “ostile, nemico”: sembra che i Romani abbiano utilizzato questa seconda accezione per definire il “più bel promontorio del mondo”, date le inimmaginabili difficoltà che gli stessi dovettero affrontare, per ben tre anni, prima di riuscire a stanare i Cartaginesi di Amilcare Barca, asserragliatisi fra le balze inaccessibili del Monte.
Ma la vera sacralità del “Monte Piddirinu” risale al 13 febbraio 1624, quando il giovane “saponaro” Vincenzo Bonelli, salito al monte con l’intento di suicidarsi per la morte della moglie, vinta dalla peste nera che flagellava la città, ebbe la visione di una giovane donna che lo condusse fino alla grotta dove ritrovò le spoglie della stessa: Rosalia de’ Sinibaldi (Palermo, 1130 – 1166), nobile normanna palermitana ritiratasi in preghiera e spirata giovanissima lì dove fu ritrovata.
Avuta notizia dell’accaduto, l’Arcivescovo di Palermo Cardinale Giovanni Doria (Genova, 1573 – Palermo, 1642) si recò personalmente sui luoghi, e decise di fare trasferire le pietose reliquie in città, per portarle in processione per le vie: il 9 giugno 1625, durante il corteo religioso miracolosamente la peste cessò, Palermo fu salva, e Rosalia ne divenne la Santa Patrona.
Da allora, in segno di devozione e riconoscenza nei confronti dell’amatissima “Santuzza” (così come a Lei affettuosamente ci rivolgiamo) da 393 anni a oggi, nella notte tra il 3 e il 4 settembre (giorno della morte della Patrona), i Palermitani si cimentano in quel percorso di fede e di espiazione che vede protagonista il Monte “Peregrinus”: la cosiddetta Acchianata.
(prosegue… a presto !)
Riccardo Quadrio
(foto MM)