Le pietre di Palermo, di Roberto Foderà

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Sono terminati gli eventi del Festival delle letterature migranti. Per cinque giorni il respiro della città ha assunto suoni, colori, odori frammisti di storia, di diversità, di eterogeneità uguali ed egualitarie. È stata una settimana fantastica per chi non ha paura di guardare e sentire storie diverse. E il contesto è una città speciale.

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La mia città è fatta di fenici, di greci, di romani, di svevi e di angioini; poi vi è tanto di arabo e di normanno, due coscienze che si incontrarono e amarono provenendo una dal sud e l’altra dal nord del mondo. E ancora di spagnoli, francesi, inglesi. Cammino tra le pietre di vie strette: via del parlamento o via Lungarini, via Materassai o Rua Formaggi. E tra questi solchi respiro l’aria piena del loro respiro.

Due giovani “di colore” mi passano accanto, sento i nomi mentre si richiamano a vicenda: Alì e Halimah. Non sono svevi né angioini, ma non sono neppure “turchi”, in quella generica classe di individui dove non pochi palermitani includono sia gente dell’estremo oriente che del sud America.

Provengono da altre terre, forse quelle dalle quali 70 mila anni fa sono partiti coloro che hanno reso viva questa terra. Siamo tutti figli di quella migrazione antica. Io, che ascolto il respiro della storia delle pietre che delimitano questa strada, e loro, i due giovani ridenti, che vi passano sopra senza nulla sapere dei Guglielmo, malo il primo e buono il secondo, e della loro al-Aziza, ma che oggi stanno dando ossigeno all’odierno respiro di queste stesse pietre.

Non calpesto più il basalto scuro, quello pregiato di Napoli, che componeva le basole di corso Vittorio Emanuele, ma sento che questo è sostituito efficacemente dall’odore di chhenagaja o dalle insegne stradali plurilingue.

Comprendo fino in fondo che le pietre di Palermo sono i blocchi di “tufo” in cui ritrovare segni di ammoniti, i grandi palazzi e le belle fontane che adornano gli spazi; ma che sono pietre vive le voci di uno sciame di bambini dalla carnagione più scura della mia che escono dalla scuola Madre Teresa di Calcutta e si riversano in via Fiume; sono pietre vive gli ortaggi insoliti esposti nel vecchio mercato arabo di Ballarò; come sono pietre i pupi che la mano esperta dei pupari fa risorgere ogni sera.

Siamo come i marmi mischi e tramischi, che accostano calcareniti provenienti da tanti luoghi, anche lontani, e che assumono senso solo accostati. Il colore del marmo, ci dicono i geologi, dipende dalla presenza di impurità: ossidi di ferro, di argilla, di limo. Penso che spesso la bellezza e la varietà dipende dalle impurità. Siamo intarsi, anzi singole tarsie nel disegno che colora, forma e trasforma questa città. E non posso che leggere oggi in questa città, che mi circonda e mi dà il respiro come d’infinito, la sintesi di tutte le storie del mondo.

Le culture migranti non sono solo un passaggio; Alì e Halimah non sono come scirocco che dura un numero dispari di giorni e svanisce. Sono delle pietre, solide e vive, che costituiscono questa mia città: Palermo.

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