La signorina Cuncettina, di Gabriella Cuscinà
Rediviva.
Che parola strana e suggestiva! Evoca sensazioni di mistero. Quella parola aveva riportato alla mente di Carlo una persona conosciuta molti anni prima a Palermo.
Si rendeva conto di come la memoria dell’uomo fosse una facoltà singolare, oltre che preziosa. Infatti, non appena sturava il contenitore dei ricordi, quelli venivano fuori a cascata e non poteva più fermarli.
Aveva circa dodici anni a quei tempi, e la zia Sara lo conduceva spesso a far visita a un’anziana signorina che abitava in un’antica villa nobiliare, una costruzione del Settecento immersa nel verde, tra palme centenarie, piena di ampi saloni affrescati e decorati, con lampadari enormi che scendevano da volte sontuose.
Vi era una cappella dedicata alla Madonna, con tante immagini sacre e con una statua di Santa Rosalia, patrona della città.
La signorina si chiamava Cuncettina, era nubile, esile e sparuta. Ammalata di tumore maligno, le davano solo pochi mesi di vita. Lei aveva reagito e con tutte le sue forze aveva voluto vivere. Non si era rassegnata alla morte e aveva lottato come poteva. Fatto sta che era guarita dal cancro e la consideravano rediviva.
Aveva insegnato a Carlo: “Bisogna lottare nella vita. Quando tutti ti dicono che è finita, tu combatti, non ti dare per vinto. Abbiamo dentro di noi delle forze sconosciute, dobbiamo solo metterle in moto. Ama la vita, sii sempre riconoscente al buon Dio per averla avuta in dono. Mostra la tua gratitudine cercando di non sottrarti mai alle sue sfide.”
Gli aveva pure parlato di Santa Rosalia e gli aveva detto che era stata una giovinetta votata a Dio, e che aveva miracolosamente salvato la città di Palermo da una pestilenza, nel 1600.
Un pomeriggio caldo e afoso, Carlo trovò Cuncettina che dormiva sollevata a mezz’aria, sospesa sul suo letto. Pareva morta, invece era viva, respirava placidamente, con un respiro regolare e tranquillo. Le braccia erano incrociate sul petto e i piedi erano dritti e allineati.
Fu colto dalla paura, ma non riuscì a gridare. Restò a guardarla esterrefatto e non credeva ai propri occhi! Come poteva restare ferma, sospesa in aria?
Dopo un po’, il corpo era sceso lentamente sopra il letto e si era svegliata.
Carlo non aveva mai più dimenticato quella scena.
Rammentava che zia Sara organizzava delle partite di Canasta e la signorina era sempre invitata. Si presentava fornita di una sedia gabinetto.
Siccome a quei tempi non esistevano i pannoloni per gli anziani incontinenti, lei per non alzarsi in continuazione, si premuniva di quel sedile con la parte centrale vuota per la raccolta della pipì. Gli odori certo non erano essenze di Dior!
Poi una volta, durante una partita di Canasta, un’amica aveva annunziato che sarebbe partita per andare con il marito in un Casinò della Francia.
Cuncettina la guardò e disse: “Bene. Non appena entri e vai al tavolo della roulette, punta il tuo denaro sul numero sei. Poi esattamente all’una di notte, punta il numero ventuno.”
Quando l’amica tornò dal suo viaggio, raccontò euforica di avere vinto dei milioni proprio nel modo e con i numeri indicati da Cuncettina.
La signorina aveva spiegato a Carlo l’antico gioco palermitano del papero.
Un gioco che si faceva per la festa di San Vito, l’ultima domenica di giugno e alla scomoda ora delle due pomeridiane.
Si andava al fiume Oreto, storico fiume di Palermo, e su una corda tesa sull’acqua, si appendevano per le zampe tanti paperi vivi.
Gli uccellatori si tenevano aggrappati con una mano e con i piedi alla corda e, con l’atra mano, dovevano cercare di spezzare le zampe ai paperi e prenderli. Nel frattempo la corda, unta di grasso, era fatta dondolare con strattoni.
Cuncettina era una persona molto devota e impartiva lezioni di catechismo a Carlo.
Gli aveva raccontato un’antica leggenda assai interessante:
“Una volta il parroco di una chiesa, passando vicino l’altare, decise di fermarsi per vedere chi era venuto a pregare. Vide un uomo vecchio e male in arnese, con la barba lunga, una camicia consunta e una giacca logora.
Pregava, poi si alzò e uscì. Nei giorni seguenti, sempre a mezzogiorno, l’uomo tornava in chiesa a pregare. Il sacerdote, preoccupato, cominciò a sospettare che veniva per rubare nella cassetta delle elemosine. Quindi lo fermò e gli chiese bruscamente: “Che fai qui?”
Quello rispose che veniva ogni giorno a dire queste poche parole: “Signore, sono venuto per ringraziarti di avermi liberato dal peccato. Non so pregare molto bene ma ti penso tutti i giorni. Beh Gesù, qui c’è Peppino a rapporto!”
Il sacerdote si sentì uno stupido e disse che poteva venire quando voleva.
Ma un giorno notò che Peppino non era venuto. Chiese informazioni e seppe che era ricoverato.
In ospedale gli dissero che egli era sempre sorridente, rideva e la sua allegria era contagiosa. La caposala non riusciva a capire perché Peppino fosse tanto felice dato che non riceveva mai né visite né telefonate.
“Nessun amico è venuto a trovarlo. Non ha nessuno.”
Sorpreso, avendo udito quelle affermazioni, Peppino disse al prelato: “L’infermiera si sbaglia. Però non può sapere che tutti i giorni, alle 12, un mio amico viene, si siede sul letto, mi prende le mani, si china su di me e dice: -Sono venuto, Peppino, per dirti quanto sia felice da quando ho la tua amicizia. Mi piace ascoltare le tue preghiere. Ti penso ogni giorno. Beh Peppino, qui c’è Gesù a rapporto. –
Quando Cuncettina aveva finito quel racconto, Carlo si era ritrovato con le lacrime agli occhi.
(n.b.: la foto di copertina è tratta dal web, ripresa da diverse fonti)