Separati dal mare, uniti dalle melanzane ovvero Vassilissa ti amo. di marcello mussolin
Spoiler: questo è un articolo lunghetto. E sembra una puntata dei Simpson: parte in un modo ma finisce saltando, come si suol dire, di palo in frasca. Ma avevo idee che mi frullavano in testa da un po’ e finalmente le ho messe giù, tutte insieme.
Vi ho avvertito.
Alcuni mesi fa il mio socio Marcello ci aveva stupiti con effetti speciali, parlando di Aoristo e di greco. Ora, sebbene anche io sia, per dirla con le “pancine”, laureato al classico, con il greco avevo un rapporto conflittuale.
In latino ero bravo, tanto che ancora qualche anno fa, quando i miei figli frequentavano lo scientifico (beh, nessuno è perfetto…) mi divertivo a tradurre le versioni, spesso senza vocabolario, ma il greco no: solo adesso mi rendo conto di come non compresi mai il mio professore, di cui ricordo il piacere quasi estatico nel declamare in greco, nel rispetto della metrica e con la sua voce arrochita dal fumo delle mille sigarette giornaliere, i versi dell’odissea.
Figuratevi quando mi ricordarono uno dei modi del greco, il famigerato ottativo: mai sentito! Altro che aoristo. Un fastidio in più, tanto da cancellarlo dalla mia mente.
Nel frattempo che ragionavo sull’aoristo di Marcello, pubblicammo un altro articolo in cui parlavamo di portantine, di sedie volanti, di vastasi. Il vastaso, termine oggi dispregiativo, era il nome usato per definire i portantini, coloro che reggevano sulle spalle le sedie – volanti appunto – dei nobili della Palermo di allora.
Da dove derivasse il nome noi, laureati al classico, quasi altezzosamente ricordavamo come chiare fossero le origini greche. Vastaso da βαστάζω” (bastazo, peso, con il corrispondente verbo βαστάζειν bastazein, portare). Di contro qualcuno ventilò l’ipotesi che il termine derivasse dalle “vaste”, le scarpe indossate appunto dai portantini.
Probabimente l’etimologia è la stessa.
Chiosai: erano le scarpe che portavano i portantini.
Ecco, appunto, io non so stare zitto, il gusto della battuta a tutti i costi non lo perdo neanche ai funerali, per cui non trovai di meglio che citare il professor Cetto La Qualunque ed il suo dottissimo “Ah, bbastasu, ah ccainu” con la sua conclusione “salivare” ove per tale si intende il rumoroso gesto di accompagnare l’epiteto con una sputazzata.
Lo so che vi sto annoiando, ma vi chiedo un altro po’ di pazienza. Devo fare il professore, adesso.
Ricordate Mediterraneo? La protagonista del film, la bellissima Vana Barba, aveva un nome regale, Vassilissa. Straordinaria, tra l’altro, la scelta di dare ad una prostituta un nome così altisonante: la prostituta con un nome da regina.
Βασιλισσα (Basilissa), infatti, è il femminile di βασιλεύς (basileus, “re”). Ancora oggi adoperiamo termini come Basilica, originariamente la casa del re, per indicare qualcosa di regale, di sacro. Ed il basilico, re delle erbe, sulle melanzane alla parmigiana.
Perché, mi domandavo, null’altro avendo da fare che pensare a queste disquisizioni etimologiche, il suono della beta, la β greca, da noi si è addolcito in V mentre in altre regioni (in Puglia, in Calabria) si è mantenuta la pronuncia più dura? Perché Basilissa diventa Vassilissa e la Basilica rimane Basilica? Perché un vastaso da noi è vastaso ed in Puglia bastaso (per non dire dello spagnolo bastaixos)?
La verità è che a scuola forse dovevo stare più attento. O che il mio professore non aveva i capelli lunghi ed il sorriso della mia amica Anna, greca per amore come lo divenne l’attendente Antonio Farina per amore di Vassilissa.
Fu lei, infatti a parlarmi – cioè lei parlava ed io mangiavo la pizza – di tale Erasmo da Rotterdam che, devo dire, mi stava un po’ sugli zebedei in quanto filosofo amato da Berlusconi.
Eppure avrebbe dovuto piacermi: fu grandissimo umanista che ebbe il merito di evidenziare le contraddizioni nelle traduzioni della bibbia, o almeno quelle diffuse dal clero dei suoi tempi, con una versione più moderna che modificava in modo anche sostanziale alcuni vocaboli stravolgendone, in qualche caso, il significato.
Mi immagino come fosse contento, il papa… beh, Lutero lo era.
La pronuncia erasmiana, per tornare ai vastasi, è quella che identificava nel suono della lettera beta il suono bee perché, ai tempi, il belato della pecora veniva trascritto con “ βα – ba”.
Allo stesso modo Erasmo intendeva superare lo iotacismo, cioè la pronuncia similare “i” che i greci/bizantini facevano di i, ē, ei, oi, y con il suono che oggi emetteremmo per pronunciare le stesse lettere. Insomma: la pronuncia erasmiana identifica l’alfabeto greco come noi lo impariamo a scuola.
La pronuncia invece del greco moderno è diversa, l’alfabeto è lo stesso ma viene pronunciato in maniera differente e quindi la beta non è beta ma vita, la eta non è eta ma ita, etc.
E quindi gli uomini, cari compagni miei di classe che leggerete, spero, queste righe, non si chiamano più oi antropoi ma i antropi. E non potremo più citare i cattivi mari come ai cacai talassai. (vastaso!)
Ed ancora, in considerazione del momento storico e delle aree di influenza dei greci nelle regioni del sud Italia, la pecora continua a fare beee ma il vastaso altrove diventa bastaso. Dipende da Erasmo da Rotterdam. Magari in qualche paese sperduto non lo conoscevano.
Chiaro, no? L’ho capito macari iu
L’ottativo, il modo del desiderio (da εὐκτική, eutikè in greco classico, adesso eftikì), qualcosa che potremo rendere con il nostro condizionale oggi non c’è più. Viene reso – ma non con la stessa forza – usando una particella (tha) e l’imperfetto
Ed è un peccato questo greco moderno senza un modo verbale per esprimere i propri desideri; pensate ad un Odisseo che vorrebbe solcare i mari alla ricerca della sua Itaca, ma non lo sa dire, ad Alcesti, ad Edipo, ai lirici greci, a Eschilo, Sofocle, Euripide, ai Pink Floyd senza wish you were here…
Questo articolo è rimasto chiuso nel cassetto per mesi, non sapevo come finirlo: poi ieri siamo andati, per preparare un’iniziativa, a Danisinni dove, fra galline, asini e panettoni (Fra’ Mauro ci ha accolti – inutile dirlo – come fratelli) abbiamo incontrato Fra’ Agostino, che mi ha dato spunto per tirarlo fuori, e non solo per parlare di cibo, di aoristo e di lirici greci.
Il “pezzo” di Anna ed Erasmo di Rotterdam, originariamente pensato come ricordo di scuola, ha sempre avuto come ispirazione – immagino che si sia capito – il film Mediterraneo, premio Oscar 1992 al miglior film straniero, regia di Gabriele Salvatores.
Nella scena finale del film, i tre reduci Lorusso, Farina ed il tenente Raffaele Montini si ritrovano allo stesso tavolo, uniti dal ricordo di Vassilissa che ormai non c’è più, stanchi e delusi da un’Italia che non gli “ha lasciato cambiare niente”, in fuga dal fatuo miracolo italiano come un po’ in tutti i film di Salvatores. Ed allora fanno l’unica cosa che ancora li unisce: “Munnano milinciane”. Italiani, Greci, una faccia, una razza.
Sì, la melanzana o melenzana che dir si voglia (ho cercato sulla Crusca, eh).
(Straordinario finale, invero).
Conosciuta in tutto il Mediterraneo ove fu introdotta a seguito della dominazione araba, non c’è paese del bacino che non abbia fatto di questo frutto dall’anima tossica, da “mela insana” appunto, il cibo della famiglia, da quella più povera a quella del re.
Non c’è frutto – frutto, non ortaggio – che non affratelli i popoli allo stesso modo: Moussaka, Babaganoush, Melenzane alla minorchina, Ratatouille, Manchego ed ancora Pasta alla Norma, Caponata, per non tacere della sinfonia di Rossini (come ho già detto altrove, una felicissima definizione di mio padre): la Parmigiana.
Andare in Grecia e “tastare” la moussaka riporta alla mente storie antiche, sapori ancestrali della nostra terra pur se su suolo straniero. E la ratatouille? Chi non l’ha mai paragonata al nostrano “canazzo”, pietanza più alla portata del siciliano dei quartieri poveri?
Separati dal mare, uniti dalle melanzane.
Uniti? I popoli delle nazioni sono troppo divisi, ci ammonisce fra’ Agostino, come lo sono – addirittura – quelli di uno stesso Paese. Abituati ormai a ragionare in termini di “noi” e “loro”, per dirla con il mio omonimo e fratello Marcello, anteponiamo, pensandola migliore, la nostra terra, i nostri concittadini, le nostre case, strade, eroi, alla vostra terra, case, strade, cibo ed eroi.
Popoli divisi, dimenticando le radici comuni. Non più italiani, greci, una faccia una razza. Noi e gli altri.
La politica del “prima”, quella che parla alla pancia della gente offuscandone il cervello, ne ha fatto il proprio cavallo di battaglia: prima gli italiani, prima i francesi, prima i turchi ove per turco il siciliano storicamente intendeva tout court l’immigrato dalla pelle bruciata dal sole che lavorava fianco a fianco con i “nostri” ed oggi, invece, il nemico, lo straniero.
Abbiamo perso il rispetto dell’altro.
Prima che sia troppo tardi, è il caso di pensare a togliere quel “prima” davanti al nome della Nazione, di qualunque Nazione.
Anche nel nome della melanzana.
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