Siamo tutti talebani? (mm)
Il nostro è un diario di bellezza, di arte, di cultura e di pensieri. Già, abbiamo il difetto di pensare ed anche fra di noi ognuno la pensa a modo suo. Non so se i miei soci, dunque, condivideranno – o no – queste due righe che sto per postare, ma il confronto è bello quando è vivace, mica quando siamo tutti soporiferamente d’accordo…
E di arte parliamo, anche se non tutti saranno d’accordo a definire arte le tante opere (statue, cenotafi, tombe, memoriali) che in tutte le parti del mondo vengono distrutte nel nome dell’antirazzismo o di qualunque altra motivazione all’uopo opportuna.
Ho trovato in rete questo bell’articolo (o almeno, per me è un bell’articolo) e subito mi son tornati in mente i talebani del Mullah Omar, sì, quelli che nel 2001 a colpi di mortaio, bombe a mano, putipù e triccetracche distrussero i Buddha di Bamyan, enormi statue scolpite nella pietra, patrimonio dell’Unesco e simbolo pagano – disse il Mullah – da distruggere a causa dell’attenzione che la comunità internazionale dimostrava per le statue mentre il popolo afghano soffriva la fame.
Ricordate? L’opinione pubblica mondiale ne rimase sconvolta. Ma come, ci chiedemmo tutti, due opere d’arte e – per giunta – simbolo non già della divinità (Buddha non è un Dio) ma della spiritualità dell’uomo stesso? L’arte è sacra, sempre e comunque.
Certe volte mi stupisco di me stesso per le cose che mi escono dalla tastiera del computer … mah.
Ecco. Mi ripeto: a me coloro che distruggono le statue, qualunque statua, anche se inneggiante ad un despota, mi fa pensare ai talebani o ai terroristi dell’ISIS (ricordate Mosul, l’arte è sacra sempre e dovunque?).
Non siamo migliori di loro.
L’articolo si chiama
Massì, buttiamo tutto, cancelliamo arte e storia
ed è di Flaminio Gualdoni, da Il Giornale dell’Arte numero 409, luglio 2020
A proposito della «caccia al monumento» negli Stati Uniti e in Europa
E poi c’è la vecchia storia che un «monumento» è una faccenda che ha a che fare sia con l’esortare sia con il ricordare, vista la radice latina del termine. Infatti gli antichi usavano i monumenti, ci hanno spiegato gli antropologi, per far da promemoria e rendere presente uno che è assente, perché è morto o perché è lontano, al quale tu devi un pezzo della tua identità. Per dire, il meccanismo funziona tanto con la divinità di turno quanto con Cristoforo Colombo e Garibaldi, Napoleone e, sì, anche Saddam Hussein. E, nel piccolo, con la foto del nonno sulla lapide al cimitero. Certo che se in quel pezzo di identità tu non ti riconosci (il che nelle nostre società complicate è normale), cominciano i guai e ti viene subito l’ideona che il monumento va abbattuto perché, ti racconti, via il dente via il dolore.
Solo che come per tutte le immagini, che sono solo immagini, ci sono delle controindicazioni. La prima è che nel frattempo abbiamo inventato la Storia dell’arte, che è un sistema di valori a prescindere, una classifica a parte, per cui uno può essere il peggiore stronzo del mondo ma se la sua immagine l’ha fatta un riconosciuto bravo artista non ti deve venire neanche in mente di cancellarla. Per dire, di Jean-Baptiste Pigalle è mille volte meglio la Madame de Pompadour, celebre zoccolona reale, che l’orribile ancorché politicamente corretto Voltaire.
Nei giardini pubblici della mia città non c’è solo il monumento controverso a Montanelli di cui tutti cianciano ma, in un altro parco, anche quello a Napoleone III, uno dei monarchi più inutili e ridicoli della storia: sfido chiunque a giustificare che senso ha, se non si sa che senso ha avuto, ma in ogni caso l’ha fatto Francesco Barzaghi, che era uno micamale, e sono sempre felice di vederlo. Francamente, riesco meno a sopportare il Montanelli, ma non perché è Indro (tra l’altro si moraleggia sui suoi trascorsi mentre, tra razzisti e pedofili, oggi come oggi ne abbiamo in circolazione un bel po’, e un bel po’ importanti e allarmanti), ma perché è una scultura di una modestia desolante, che fa a gara con il mammozzo dedicato a papa Wojtyla davanti alla stazione Termini di Roma.
La seconda controindicazione è che la storia è sempre una vicenda più lunga e soprattutto più intricata di quanto riusciamo a pensare; e noi che siamo vivi tendiamo a considerarci comunque i meglio fichi del bigoncio della storia medesima, per cui ciò che va bene a noi oggi è ciò che «deve», per effetto di irrevocabile coglioneria (categoria che travalica nettamente la storicità), andar bene retrospettivamente in tutte le epoche. Dunque, siamo belli, buoni, democratici, rispettosi di tutte le varietà e di tutte le minoranze eccetera, e pretendiamo per ovvia conseguenza (che ovvia non è per una cippa) di cancellare tutti i segni difformi da questo paradigma. Ergo, Colombo è stato all’origine dello sterminio dei nativi americani, quindi buttare; Socrate predicava la pederastia, quindi buttare, eccetera. Ma anche padri della chiesa come san Paolo e sant’Agostino sulla schiavitù non scrivevano mica quello che oggi vorremmo, e anche la regina Vittoria dei gran danni in giro, soprattutto in India e dintorni, ne ha fatti, e non risulta che il trionfale Victoria Memorial di Londra corra dei rischi nonostante il sindaco della città pakistano e islamico. E Vittorio Emanuele II, che continuiamo a considerare il padre della nostra patria, andava regolarmente a letto, agli inizi dell’affaire con la «bela Rosin», con una che era largamente minorenne.
Allora era più politicamente corretto quel fetentone di Napoleone III, che a letto andava con una bella creola (Giuseppina di Beauharnais) e se l’era pure sposata. Quanto a democrazia, siamo così sicuri che ad Atene le cose andassero come ci è piaciuto raccontarcele, salvo poi celebrare senza distinzioni la Roma repubblicana e poi anche Giulio Cesare e poi ancora Ottaviano Augusto, uno che senza remore si è fatto proclamare dio e che ci ha lasciato in eredità anche Caligola e Nerone?
Come ci ha insegnato la Rivoluzione francese, non è scalpellando i volti dei re sulla facciata di Notre Dame che si abolisce la monarchia, visto che tra Otto e Novecento il termine antico che è andato più di moda è stato «dittatore». E bisognerebbe meditare che, ai fini identitari, per un americano è peggio un Trump eletto democraticamente oggi che lo schiavista «Via col vento» allora (e i preti occhiuti dell’Indice che processarono «La capanna dello zio Tom» perché voleva «rovesciare l’ordine costituito»?), e che una statua in meno di chiunque non cambia proprio nulla, se nasci e muori nel tuo ghetto indecente.
Ma per riflettere occorre sapere, il che presuppone studiare e capire. Presuppone pensare: e il pensiero libero (se non è libero non è pensiero) è una mercanzia che va scarseggiando in modo sempre più allarmante.