Kent Haruf, Le vite degli altri e i rimpianti, di Marcello Mussolin
“Cos’è che ci siamo detti? Che è impossibile aggiustare le vite degli altri, no?”
(Kent Haruf, Our Souls at night)
Ieri stavo rileggendo l’articolo di Valeria Paleologo su Kent Haruf (ecco il link http://www.palermofelicissima.it/2019/02/21/le-nostre-anime-di-notte-di-valeria-paleologo/), avendo comprato l’ultimo libro pubblicato da NN Editore, “La strada di casa” postumo anche se, in realtà, scritto nel 1990.
Ma non è di questo che voglio parlare, ancora non l‘ho finito, ma di ricordi…
Verso la fine degli anni 70 – e mi sto sentendo vecchissimo a ricordarlo – assistetti ad uno spettacolo teatrale, curato degli studenti del “mio” liceo Meli di Palermo, che univa due capolavori della letteratura americana: Piccola Città, di Thornton Wilder e l’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters.
Straordinario, come straordinario fu l’impegno dell’allora emergente Umberto Cantone e di tutti gli studenti che dettero il meglio di loro stessi.
Il dramma di Wilder, per chi non lo ricorda, narra la vita di una “piccola città”, appunto, descrivendo le storie di ogni giorno, accompagnando in tre momenti della sua vita la giovane Emily, giunta sulla Collina perché morta di parto dopo aver dato alla luce il suo bambino.
La disperazione di Emily convince il “direttore di scena” a permetterle di tornare sulla terra per un giorno, un solo giorno, quello del suo dodicesimo compleanno per rivivere ancora una volta ricordi di quel tempo che credeva felice: l’esperimento però si conclude con il dolore ed il rimpianto perché “tutto passa così in fretta. Abbiamo a mala pena il tempo di guardarci l’un l’altro”.
La vita deve essere compresa nel momento stesso in cui la si vive, dice Emily, per non vivere di rimpianti.
Sulla collina giacciono i morti della piccola città, che lo spettacolo immagina essere quelli di Spoon River. Il giudice, il chimico, l’ubriacone, il matto, le amiche:
Una morì di un parto illecito,
una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag –
tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.
Come non collegare il rimpianto di Emily con il senso di urgenza – per dirla con Fabio Cremonesi, traduttore di tutte le opere di Haruf – che permea i romanzi dello scrittore e sembra anche determinarne i contenuti, la trama, la psicologia dei personaggi: dietro ogni gesto di Addie Moore, dietro ogni sua parola, ogni sua decisione sembra esserci in agguato un “prima che sia troppo tardi”
Come non pensare che “come Masters crea la sua Spoon River dalle storie incise sulle lapidi, così Haruf ci presenta un mosaico di polaroid, una serie di istantanee sulla comunità di Holt che vanno a comporre il romanzo corale della Trilogia della Pianura più uno (Le nostre anime di notte, appunto) rendendo letterariamente immortale la vita sull’altopiano” . (Barbara Masoni, Le nostre anime di notte, o della condivisione, in Giacomo Verri Libri)
In quegli anni, comprai l’Antologia di Spoon River, e mi appassionai a “Non al denaro non all’amore né al cielo” di Fabrizio De Andrè che riportava in musica, rendendole universali, le storie della collina.
“Il suonatore Jones” – che considero una delle più belle canzoni di Fabrizio De Andrè è, in fondo, la sintesi di questi pensieri: vivi la tua vita ed alla fine, nemmeno un rimpianto.
La terra emana una vibrazione
là nel tuo cuore, e quello sei tu.
E se la gente scopre che sai suonare,
ebbene, suonare ti tocca per tutta la vita.
Che cosa vedi, un raccolto di trifoglio?
O un prato da attraversare per arrivare al fiume?
Il vento è nel granturco; tu ti freghi le mani
per i buoi ora pronti per il mercato;
oppure senti il fruscio delle gonne.
Come le ragazze quando ballano nel Boschetto.
Per Cooney Potter una colonna di polvere
o un vortice di foglie significavano disastrosa siccità;
Per me somigliavano a Sammy Testarossa
che danzava al motivo di Toor-a-Loor.
Come potevo coltivare i miei quaranta acri
per non parlare di acquistarne altri,
con una ridda di corni, fagotti e ottavini
agitata nella mia testa da corvi e pettirossi
e il cigolìo di un mulino a vento – solo questo?
E io non iniziai mai ad arare in vita mia
senza che qualcuno si fermasse per strada
e mi portasse via per un ballo o un picnic.
Finii con quaranta acri;
finii con una viola rotta –
e una risata spezzata, e mille ricordi,
e nemmeno un rimpianto.